ATTO I

Fondazione Giuliani, Roma
maggio 2015 – luglio 2015

con Lili Reynaud-Dewar, Pedro Barateiro, Pablo Bronstein, Haris Epaminonda, Fischli/Weiss, Jacopo Miliani, Amalia Pica, Alexandre Singh, Daniel Steegmann Mangrané

All’origine del pensiero moderno si configura la contrapposizione tra ordine e disordine, “impulsi e tendenze antitetici dalla cui modulabile combinazione scaturisce in ogni tempo l’opera d’arte”. Partendo dallo schematico binomio elaborato da Friedrich Nietzsche ne La Nascita della tragedia, la mostra Beauty Codes (order/disorder/chaos) nasce dal lavoro congiunto di tre spazi internazionali, CURA., Fondazione Giuliani e #kunsthallelissabon e si sviluppa nell’arco di sei mesi in tre tappe successive.

Liberamente concepito secondo i codici narrativi della tragedia greca, Beauty Codes si apre con una voce singola e si evolve in un graduale processo di stratificazione e accumulazione che sconvolge l’ordine originario frammentandolo in molteplici punti di vista, confini distrutti e ruoli sconvolti. Alla fine, al caos segue una fase di sottrazione caratterizzata da una nuova configurazione degli oggetti e tracce rimaste delle azioni precedenti. L’intero ciclo espositivo si origina nell’ordine e nell’armonia, scorre attraverso il disordine e il caos e giunge alla creazione di una nuova condizione di quiete.

Il progetto è iniziato presso CURA.BASEMENT con l’installazione Why Should Our Bodies End At The Skin? (2012) di Lili Reynaud-Dewar, un lavoro che funziona come collegamento dei tre attidella piece messa in scena sui tre distinti stage e che viene presento in forma diversa presso la Fondazione Giuliani. Come nella tradizione classica, la voce narrante è chiamata ad annunciare l’azione scenica prima del suo vero e proprio inizio, a spiegare gli avvenimenti e le conseguenti azioni che causano il capovolgimento dei ruoli, la moltiplicazione di forme e prospettive, il disordine e infine il ristabilirsi (in modo mai ordinato) dell’assetto precedente.

Il lavoro di Reynaud-Dewar, incentrato sul rapporto tra corpo, linguaggio, letteratura e identità, è parte della mise en scéne della mostra, il deus ex machina di antica memoria, la voce narrante che accompagna il complesso svolgersi dell’intera performance.

L’opera / (- \ (2013)di Daniel Steegmann Mangrané annuncia l’iniziare dell’Atto I alla Fondazione Giuliani. Varcando la soglia dello spazio espositivo lo spettatore passa attraverso quattro tende di alluminio come se percorresse il proscenio di un palco. Questa delimitazione relazionale di spazio e movimento confonde la distinzione tra palcoscenico e pubblico, tra attore e spettatore, anticipando ciò che sta per accadere.

Dopo aver percorso il proscenio, lo spettatore si ritrova al centro della scena, osservatore e partecipante, in una giustapposizione di differenti pratiche artistiche e configurazioni. I lavori di Haris Epaminonda scandiscono lo spazio espositivo come note di una composizione spaziale e concentrano la scena dell’azione mentre demoliscono le tradizionali modalità del display di una mostra. Lo spazio dell’azione è osservato dai busti in bronzo di Bullen, Dandy e Strumpet (tutti del 2013), i personaggi di The Humans di Alexandre Singh, una commedia in tre atti basata sul tema dell’introduzione del caos in un cosmo che altrimenti sarebbe ordinato e modellata sulle opere di Aristofane.

Al posto di realizzare una singola logica narrativa, l’Atto I costruisce una giustapposizione disordinata delle opere, in cui differenti tipologie di narrazione si legano e s’intersecano liberamente per generare una sovrapposizione di trame. Qualunque traiettoria lineare è ulteriormente smantellata da una stratificazione di interventi, un contemporaneo attuarsi di perfomance che riconsiderano il ruolo degli attori e degli spettatori. I lavori di Amalia Pica, Pedro Barateiro e Jacopo Miliani riconfigurano lo spazio con sculture in atto. Con Is it by Mistake or Design? (2015) Barateiro rompe la divisione tra autore e spettatore attraverso l’interazione con il pubblico e l’attivazione del tradizionale ruolo passivo dello spettatore. Un’allusione ai giochi, ai rituali e ai rompicapo, le miriadi di possibili configurazioni astratte di un’opera dialogano indirettamente con il lavoro ABC (line) (2013) di Amalia Pica. Sia installazione che performance, l’opera è attivata dalla continua riconfigurazione delle diverse forme in Perspex, metafora dei differenti significati, funzioni e interpretazioni della comunicazione individuale e collettiva. Nei lavori di Jacopo Miliani, la cui ricerca si pone principalmente come investigazione sulla teatralità, le sculture diventano corpi in movimento. Attraverso azioni minime, gesti raffinati e materiali semplici, gli spazi della Fondazione diventano il luogo dove il caos prende forma e lascia le sue tracce.

Nel video di Pablo Bronstein, Young man spills cremated remains onto the floor I (2012), presentato per la prima volta al pubblico, una mise-en-scène, fortemente stilizzata, raffigura un personaggio maschile la cui teatralità lo sospende tra la rappresentazione di una classica scultura greca e un cortigiano barocco. Infine, il film iconico di Fischli / Weiss, Der Lauf der Dinge (1987), trasforma oggetti quotidiani in agenti di movimento. Un percorso di azioni e conseguenze, momenti precari di equilibrio e stabilità, trasmutazione e collasso, la connessione tra causa ed effetto induce lo spettatore ad interrogativi metafisici sul mondo, sul modo in cui le ‘cose’ vanno avanti.