Consequences

ottobre – dicembre 2015

Consequences è un tentativo di continuare un impulso di collaborazione artistica. Terribile come suonava il termine ‘collaborazione’ perché abusato e inadeguato, alla fine l’ho scartato sperando che la mostra riveli solo lo spazio che abbiamo lasciato: lo spazio esistente tra un piccolo gruppo di artisti infatuati l’uno dell’altro e leggermente sospettosi del mondo esterno. Quando stavo lavorando alle prime versioni della mostra, cercando un nuovo modo di cambiare l’abituale processo creativo, mi è venuto in mente il film Le Cinque Variazioni di Lars Von Trier. Nel modo in cui sviluppiamo e scivoliamo nei rituali ripetitivi che produce ogni linguaggio c’è il pericolo che diventi prevedibile e manieristico, anche per sé stessi. I surrealisti lo sapevano e provarono a contrastare questa noia inevitabile praticando un gioco da salotto che aveva lo stesso nome di questa mostra, Conséquences. Attraverso il caso e una semplice piega, numerosi autori hanno esplorato quello che io vedo sempre più come base delle nostre riflessioni quotidiane: un mix di narrazioni personali, riferimenti stratificati ed emozioni fuse insieme.

Nel 2009, Conny Purtill mi parlò del suo desiderio di concepire un nuovo metodo di lavoro, descrivendolo come ‘inefficiente’. Con sorpresa, dovuta al fatto che sapevo quanto fosse efficiente come persona, capii che la sua intenzione era di trasformare il meccanismo di concezione dell’opera d’arte in una sfida che prima di tutto prevedesse la realizzazione di una ‘base’ per il lavoro di un altro artista. Canalizzando una particolare combinazione d’influenze, dall’esempio di Carl Andre a Donald Rumsfeld, i Grounds di Purtill si fecero strada fino a raggiungere un certo numero di artisti che accettarono l’implicito contratto. Fino ad oggi il risultato è stato bizzarro e intrappolato in un tempo che può definirsi ‘pressurizzato’. Lo scambio inizia con l’arrivo per posta di una tela perfettamente imballata che una volta scartata svela una superficie che rivaleggia per la sua pregevolezza con un materiale come il marmo, ottenuta dipingendo e levigando diversi strati di gesso, inchiostro indiano e grafite. La domanda successiva, che sono certo si ponga ogni persona che abbia ricevuto un Ground, è: “Posso toccarlo?”. La maggior parte lo fa e le aggressioni e le tracce rimaste sulle basi sono state presentate solo due volte prima di questa mostra. In un certo senso, Consequences è come l’albero che sta ancora crescendo dai semi gettati da Conny e proprio per questa ragione gli ho chiesto di concepire insieme una mostra all’interno di una mostra strettamente dedicata ai suoi Grounds. Ci siamo quindi reciprocamente invitati e in seguito lui, come curatore, ha coinvolto sé stesso insieme a Todd Norsten, Felix Culpa, Josiah McElheny e Ari Marcopoulos.

L’altro principio organizzativo al quale s’ispira la mostra proviene dalla lettura del libro di Sarah Lehrer-Graiwer, pubblicato per Afterall, dedicato a Dropout Piece di Lee Lozano e dall’incontro con l’autrice che mi ha parlato della sua ricerca sui lavori di Lozano di difficile formalizzazione. Sono rimasto colpito dal fatto che Dropout Piece sarebbe potuta non essere affatto un’opera di Lee Lozano ma piuttosto una sfida o una proposta rivolta ad una generazione di artisti che potrebbero riprendere il controllo delle proprie azioni o, come minimo, morire provando. L’approssimazione dei parametri mi ha portato in primo luogo a riflettere su come stessi rifabbricando gli elementi e gli strumenti per cambiare il mio lavoro, che esso fosse ancora un modo per cambiarne il processo e, come Lozano, che gli strumenti e il processo diventino ogni cosa da cui valga la pena essere ossessionati. Io sono un artista ‘da studio’ nel senso pieno della routine quotidiana e dei suoi movimenti ripetitivi che mi porta ad una follia tale che includere Il Fantasma di Lee Lozano è un tributo a un artista la cui memoria influenza la forma di qualunque cosa riguardi questa mostra; un equivoco irriverente che potrebbe essere basato più su uno scherzo che su altro.

Come ogni mostra ha il suo racconto, questo comincia con qualcuno che si è arrabbiato con me, il che è coerente con una mostra che s’intitola Consequences. Dopo aver già organizzato un ciclo di mostre, dal 2012 al 2014, intitolato Trieste, insieme ad un gruppo di artisti sulla stessa lunghezza d’onda, sono entusiasta che la sua evoluzione sia stata più difficile da gestire e i risultati più soddisfacenti, provocatori e problematici. In alcuni casi, in particolare con Jessica Jackson Hutchins, Justin Schlepp e Gedi Sibony, durante l’organizzazione ho compreso che c’è un momento in cui un singolo artista può scavalcare le intenzioni collaborative, prendendo posizione, dando origine a una sorta di autorialità esclusiva. Questa potrebbe essere la riflessione più preziosa da trarre da un’esperienza che ha comportato un anno di comiche interazioni, che sono andate dall’acquisto di un gabinetto esterno e di un tavolo da pic nic fino all’uso della telepatia, rane in Danimarca, una scatola piena di cartone e legno, uno sgabello con qualcosa da insegnarci e il rendersi conto che rappresentiamo l’uno per l’altro un anormale albero genealogico. Tutti gli artisti che sono stati al gioco, accettando una serie di condizioni affatto ideali, Jessica Jackson Hutchins, Gedi Sibony, Todd Norsten, Michael Stickrod, The Unknown Artist, Conny Purtill, Justin Schlepp, Felix Culpa, Josiah McElheny, Ari Marcopoulos e il fantasma di Lee Lozano, hanno inconsapevolmente creato insieme un giardino, un giardino in stile molto americano: ubriaco, sciocco, colorato e di gusto marginale.

– Jay Heikes